L’occhio che sente
Di Gianluca Marziani
Sentire l’inquadratura, immaginando la sequenza che elabora un andamento: concetto ovvio quando parliamo di grande cinema, meno scontato quando un artista visivo si accinge a dialogare con la sintassi del linguaggio filmico. Ancor più raro, di fatto, se l’artista non si focalizza sulla ripresa video ma utilizza materiali di scarto e riuso molteplice, secondo assemblaggi scenografici che indicano il potenziale narrativo (inquadratura e sequenza) dentro volumi scultorei ed elementi installativi.
“Sentire” le immagini non significa costruire semplici formule figurative, a questo ci pensa la forza tecnologica dei media elettronici (esistono software che già sono capolavori d’arte creativa). Al contrario, si tratta di percepire l’invisibile in una forma fluida e non didascalica. Sentire come sinonimo di intuizione e veggenza, frutto di estetiche liberatorie con cui inventare un nuovo reale nella consapevolezza del mondo plausibile. L’artista che “sente” è figlio del cinema, nipote dell’iconografia classica e padre degli immaginari futuri. Una mescolanza di attitudini in cui si combinano due anime, quella statica dell’arte visiva e quella dinamica del cinema, creando delle visioni impreviste e germinative.
Lo scorso anno ho premiato per Artekne un’opera di Paola Risoli: Agile: handle with care. Conoscevo poco il suo lavoro ed è stata l’occasione per approfondirlo, scoprendo meglio le ibridazioni di un’artista che sente l’inquadratura e immagina sequenze. Elementi della digestione urbana catturano il senso delle sue opere. Ci sono vecchie televisioni senza schermo, valigie tagliate o bidoni da benzina ad accogliere nel loro ventre gli elementi di interni domestici, sapientemente ricostruiti con piccoli oggetti che miniaturizzano la scala del reale. In parallelo ci sono le fotografie che si focalizzano sugli interni in questione, ingrandendo una realtà che racconta il reale attraverso il rimpicciolimento. Magica è la dicotomia tra un’abitazione improbabile (la televisione, il bidone, la valigia…) e l’immagine luminosa di un luogo silenzioso (la fotografia e la proiezione), idealmente assemblati in un circuito visuale che sovrappone diversi conflitti morali del nostro tempo. Meno magico è il pensiero di povertà e solitudine che le installazioni impongono da subito, quasi a dare forma ad una verità che gli occhi agiati non vorrebbero vedere. L’idea della Risoli ha giusta forza e solida poesia, raccogliendo un’idea sul mondo dentro la ricostruzione di piccoli mondi autonomi. Un brivido corre lungo la schiena quando osservi le camerette spoglie, la sporcizia e l’abbandono, la fragilità delle pareti e del mobilio, le macchie e le crepe sui muri.
Odori e colori ti portano subito nel cinema dei nomadismi, delle fughe da fermo, del noir e dei mondi borderline. Le luci d’atmosfera aggiungono la malinconia, il sentimento di perdita e deriva, un mistero che solo la nostra immaginazione potrà risolvere. La qualità delle inquadrature, alla giusta distanza per accennare senza rivelare, contribuisce a creare il pathos sospeso, il galleggiamento emozionale che ci mette in azione interiore, scatenando la nostra presenza sensoriale e le risposte per noi sensate. Solido e liquido si combinano nelle opere con imprevedibile entropia, come se fossero parti organiche di una stessa dimensione. I due linguaggi (solido/scultura, liquido/fotografia) agiscono per attrazione/repulsione, legando i propri elementi per un principio attivo che riguarda un aspetto centrale del nuovo millennio, ovvero, il ribaltamento di archetipi creduti intoccabili fino a ieri.
Un dialogo, quello generale tra solido e liquido, che lancia l’opera verso il mondo reale: riemerge infatti la questione urbanistica delle megalopoli, il dilemma del nucleare, la svolta ecologista dei nuovi mezzi energetici, il problema mondiale del cibo, la questione annosa delle discariche e degli inceneritori… tutti i macrodilemmi del presente, fateci caso, mettono in conflitto lo stadio solido e liquido, talvolta con risultati da cortocircuito, altre volte con previste o impreviste armonie. Lo spazio del mondo dimensiona il proprio tempo nel rapporto misurabile tra parti solide e parti liquide. Lo spazio dell’arte crea il giusto parallelo tra stadi della materia, facendo slittare la questione sul piano simbolico delle metafore, arma affilata che mette l’arte fuori dal realismo didascalico, dentro una visione che non è mai lineare ma parabolica, intrusiva, stratificata.
Paola Risoli crea metafore sulle turbolenze umane del mondo, partendo da una costruzione che è narrativa e polisensoriale. I suoi teatri del novo assurdo hanno Eugène lonesco nel cuore e Edward Kienholz nei muscoli, Michelangelo Antonioni nel cervello e Robert Rauschenberg nelle ossa. Teatro e cinema si fondono nello spazio progettuale per una partitura a voci dissonanti (i contrasti tra materiali), capace di parlare a referenti diversi con codici che si adeguano ai singoli livelli di partecipazione visuale. Per una volta possiamo dirlo: l’arte è anche un bidone (che funziona).